16 maggio 2012

AN HAPPY PLACE


Tra tutti gli insulti che potrebbero indirizzarmi ce n'è sicuramente uno che proprio non mi potrebbe mai toccare:
le mie braccia non sono per niente rubate all'agricoltura, e, qualora l'agricoltura avesse preferito tenersele, non le sarebbero state comunque molto d'aiuto.
Ne ho avuto la riprova oggi, in un pomeriggio di noia trasformato in una sessione di frontierville dal vivo.
La zappa non mi dona, decisamente.
E le piante grasse, forse per invidia o competizione, ce l'hanno indiscutibilmente con me.
Ora che sono a casa, più indolenzita dei portatori dei ceri di Gubbio (visto che è periodo), rivaluto la possibilità cutugnana di andare a vivere in campagna. 
A meno che il concetto di campagna non sia quello di magione provenzale con tanto di servitù, ovvio.
Eppure, lì per lì, c'era qualcosa nell'aria che mi dava energia. 
Tornare dopo anni nei posti precisi e vedere se la memoria ci ritrovava gli alberi giusti. 
Stupirsi di come un pezzo di terra sia in realtà molto più piccolo ora di quanto lo vedevamo 20 anni fa.
Raccogliere i limoni, e le nespole. Fregare i primi gelsi sempre dallo stesso albero, quello del vicino.
E poi fermarsi, col cuore in gola, a vedere quanto sono cresciuti gli alberi che ha piantato papà. Sono altissimi, diritti e forti. Belli e sani. 
Proprio come lui, e un po' anche come noi.




2 commenti:

  1. Tesora quello che hai scritto è bellissimo. Grazie per averci reso parte di una cosa così intima...
    E soprattutto è bello sapere che non sono la sola a pensare che gli alberi in realtà non sono solo piante che abbelliscono un terreno, ma diventano dei "punti di riferimento" per ciascuno noi rappresentando un legame vivo con il nostro passato, il presente e il futuro.
    Baciuzzi!!!!

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  2. ho visto la prima foto e il mio cuore ha fatto un salto. rosso come le dita nei gelsi.

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