3 maggio 2012

TUTTO IL NIENTE CHE RIMANE


C’è una cosa che mia madre non dice più ed è questa: “Alla tua età io avevo già due figli”. Il tono era sempre esageratamente melodrammatico. Come dire: crescere te e Pietro è stato come allevare una muta di cani con la rabbia.
Adesso non lo dice più.
Ho trent’anni. Sono passati cinque anni dalla mia laurea, tre da quando sono partita per venire a Torino a cercare una supplenza. In questi anni mi ha fatto molte telefonate e molte domande (Non hai conosciuto nessuno? Fino a quando dura il contratto? Ti pagheranno mai?); le mie riposte le hanno scardinato un’idea di mondo, il suo, finché ha capito, non ci paragona più.
E’ un sollievo e al tempo stesso non lo è.

Qualcosa mi è sfuggito dalle mani, ora me ne accorgo anch’io. Mentre mi concentravo sulla prossima scadenza, sulla fine del mese, su un possibile lavoro, su quei ritagli di tempo che avrebbero dovuto garantirmi una vita sociale, qualcosa mi è sfuggito e non sono riuscita a trattenerlo. Non è la giovinezza, non sono le occasioni perdute, né le persone lasciate. Sono io: non c’è niente di me che rimane.

Penso alle cose che scriviamo su twitter e che spariscono dopo pochi secondi, all’articolo che riusciamo a farci pubblicare, agli stage che si accumulano nel curriculum, alle iniziative che riusciamo a farci finanziare con meno soldi ogni anno, ai coinquilini che vediamo ruotare e per cui ruotiamo, ai lavori diversi in posti diversi: tutto quello che ci riguarda non mette radici e quindi non dà frutti. E’ destinato a sparire.
Le decisioni della politica ci travolgono come ondate cui è necessario resistere per restare a galla. Possiamo solo criticarle, andare a votare senza perdere la speranza, aspettare la prossima ondata.
Ci sono ancora i figli, certo, ma non sono nostri. Siamo i loro insegnanti precari, i loro educatori a tempo determinato, nient’altro. E volendo averne ci diciamo che non potremmo mantenerli e spessissimo è vero: non possiamo occuparci di loro perché ci stiamo ancora occupando di noi.
E mentre ci concentriamo sulla scadenza ormai prossima, sulla fine del mese, su quel lavoro perso, non lasciamo un segno duraturo su questo Paese. Niente che possa renderlo più bello o che riesca a scalfirlo, sfregiarlo. Niente che ne cambi davvero la rotta.

E’ probabile che sia solo un po’ di stanchezza o il fatto che il trascorrere degli anni mi abbia trovato impreparata, ma ultimamente la sento questa mancanza per quello che potrei fare, insegnare, trasmettere e che invece è destinato a venire via con me ovunque debba andare.
Sei fortunata, mamma: alla mia età tu avevi già una piccola parte di mondo tutta tua che stavi contribuendo a formare. E’ triste, ma non disperare: magari Pietro ci farà una sorpresa.


Questa cosa l'ha scritta Giusi Marchetta, 30 anni, insegnante precaria e scrittrice.
Ho sorriso mentre la leggevo, perché - piccoli dettagli a parte - l'avrei potuta scrivere io; solo poche ore fa stavo bene e parlavo di luce con l'ottimismo e la forza che solo il primo sole sa darti, e ora mi ritrovo in una selva oscura, popolata da fantasmi. Il sole è un po' sceso e tira un'arietta che mi fa venire la pelle d'oca.
Sono in cassa integrazione.
Ho dovuto cercare su google come si scrivesse correttamente, perché fino a oggi ne avevo solo sentito parlare, e anche quando leggevo questa parola i miei occhi non la vedevano e il mio cervello non la registrava. Semplicemente era una cosa che non esisteva, che non poteva esistere.
A quanto pare allora la crisi è veramente così: non esiste finché non ci tocca.
E ora?
Dovrebbe essere una cosa momentanea, ma si è concretizzata, e le paure quando diventano reali sono ancora più paurose. Un po' come le malattie. Io la paura di restare senza lavoro non ce l'avevo mai avuta, e ora sono nel panico.
La prima sensazione è quella dell'irrimediabilità del disastro. La sensazione di sconfitta, di fallimento cosmico, mio agli occhi di me stessa e mio agli occhi degli altri.
Provo vergogna, come se fosse colpa mia.
Come farò a dirlo al mio ragazzo, che si ammazza tra mille lavoretti precari e pericolosi? Come farò a parlarne con mia mamma? Che penserà mio fratello che ancora deve laurearsi?
E ancora, come cazzo ho fatto a infognarmi in questo cul de sac? 
E' come se avessi bruciato 5 anni preziosi della mia gioventù. 5 anni in un posto che non mi piace, con un lavoro che non mi è mai piaciuto "però a tempo indeterminato", coi piedi incatramati in questo pantano fino a oggi.
5 anni in cui avrei potuto fare di tutto, essere ovunque, essere diventata chiunque.
E invece sono io, qua. Più povera di prima, sicuramente (e non in senso economico). Una povera scema che a 30 anni è nel panico di dover affrontare una cosa più grande di lei senza esserne minimamente pronta.

Boh.

Ci penserò su.

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